ARTE DIGITALE: INTERVISTA AD ALESSANDRO AMADUCCI
di Roberto Guerra
*2011: tutto si evolve, figurarsi l’informatica o l’arte digitale. Alessandro Amaducci, protagonista in Italia e all’estero nel 2010 (special guest anche in The Scientist 2010 a cura di Vitaliano Teti e Ferrara Video&Arte), continua il suo tour non stop. Soltanto in questo mese di gennaio, con Fear of Me, un episodio di Electric Self Anthology, ha partecipato alla collettiva video dell’evento finale di Arte Video Roma Festival, rassegna internazionale di ricerca audiovisiva organizzata dal C.A.R.M.A. (Centro d’Arti e Ricerche Multimediali Applicate), a cura di Veronica D’Auria; non ultimo, a Barcellona in concorso con Not with a Bang altro episodio di Electric Self Anthology, a NU’2 VideoDansa International Barcelona Prize, nell’ambito del Festival IDN - Image, Dance and New Media.
Pure, tra un evento e l’altro, l’artista ha trovato un pixel libero per questa preziosa intervista squisitamente controculturale!
Amaducci: la video art digitale, oggi
Alessandro Amaducci… “Fermo
restando che per molti il termine video art è oramai invecchiato, sono
uno fra quelli che continua ad usarlo più che altro per comodità, per
intendere un’area di sperimentazione audiovisiva che ruota intorno alle
tecnologie digitali e che si esprime in vari modi: dal video, al
videoclip musicale, al cinema digitale, alla videoinstallazione, alle
scenografie per la danza, il teatro o la musica, alle performance
multimediali, al live, allo urban screening, ecc. E poi c’è il web,
ovviamente.
Questo elenco dovrebbe dare già un’idea di quello che per me in questo
momento è la videoarte digitale: una forma possibile di linguaggio (e
non più un genere) che filtra per osmosi in diversi settori. Con questo
non voglio difendere ad oltranza l’idea della trasversalità a scapito di
una possibile specificità. Secondo me il linguaggio digitale ha delle
sue caratteristiche peculiari che lo rendono un “oggetto” specifico che
può essere analizzato autonomamente, ma contemporaneamente sono convinto
che, ora più che mai, una delle caratteristiche più evidenti del
linguaggio digitale è la sua capacità mimetizzante, per cui questa
tecnologia si può “insinuare”, cammuffandosi di volta in volta in
qualche cosa di diverso, dentro una pluralità di linguaggi differenti.
C’è stato un momento, nella storia del cinema ad effetti speciali ad
esempio, in cui l’ostentazione del digitale era una scelta quasi
necessaria, ora spesso il digitale c’è ma non si vede, e se viene
mostrato è per evidenziare una determinata scelta di stile, di “pasta
grafica”, al di là dell’ossessione fotorealistica che per un certo
periodo ha dominato una certa estetica digitale.
Per quello che riguarda il video, un esempio può essere il fatto che
grazie al digitale è ri-nata un’idea di animazione che si può
squadernare in possibilità veramente variegate: dalla computer grafica
3D (che è uno degli specifici di questo mezzo), all’animazione
bidimensionale, al collage in movimento, alla grafica astratta, insomma
tutte quelle forme di animazione che simulano tecniche “antiche”
attraverso le nuove tecnologie.
È la prima volta che un mezzo, oltre a simulare a modo suo la realtà,
può simulare i linguaggi e gli stili del passato in maniera così
precisa, lasciando, contemporaneamente, un raggio d’azione personale
molto ampio all’utente. C’è sicuramente il rischio di essere schiacciati
dalla mole di possibilità del database del digitale, del già-fatto, del
plug-in, ecc.
L’appiattimento è uno dei rischi di questa tecnologia che credo vada
percorso fino in fondo per trovare soluzioni creative che aprano
l’orizzonte a scenari e immaginari originali, autonomi, che suscitino
emozioni, che lavorino sulla contraddizione, che creino mondi altri, che
siano in bilico sull’abisso, insomma.
Il digitale costruisce, questo è uno degli elementi che più mi affascina
di questa tecnologia, declinata nel più ampio modo possibile”.
Amaducci: informatica e robot liberatori o macchine disumanizzanti?
Alessandro Amaducci…. “Applico
questa domanda ai corpi digitali che spesso fanno capolino nei miei
video, e più in generale alla questione della simulazione del
corpo-attore-performer. Io credo ancora all’espressionismo, e al
simbolismo, in due parole, al fatto che la finzione e l’artificialità
vada ricercata e “messa in scena” per quello che è, cioè qualcosa di
visibilmente artificiale, il che non vuol dire che sia automaticamente
falsa. Semplicemente, rimanda ad altro.
Quindi, per quello che riguarda i corpi artificiali di Final Fantasy o
quelli dei film di Robert Zemeckis, posso dire che la qualità che più mi
interessa è che non riescono ad essere dei corpi, ma assurgono al ruolo
di splendidi automi perfetti. Marionette con una strana vita
artificiale: mezzi vivi e mezzi morti, dei morti viventi, degli zombie,
dei ritornanti. Adoro le bambole di Hans Bellmer, mi piace il teatro di
marionette, e sono convinto che qualsiasi oggetto tridimensionale che ha
l’ambizione di simulare realisticamente cose e persone diventa
automaticamente un feticcio, quindi un elemento dalla forte carica
simbolica, che scava solchi profondi non solo nella nostra percezione ma
nella caverna del nostro inconscio.
Onestamente non so se la disumanizzazione, come qualsiasi processo
rivoluzionario (in positivo e in negativo), possa essere liberatoria, ma
sono sicuro che in quest’epoca così “numerica” mai come adesso stiamo
facendo i conti con il nostro corpo, e soprattutto con la sua immagine.
Onestamente, trovo più disumanizzati certi profili presenti nei social
network piuttosto che un robot.
La pornografia “ufficiale” contemporanea presenta dei corpi e delle
performance disumanizzate, standardizzate. La pornografia amatoriale
sempre più simula quella ufficiale. Quelli non sono di certo robot
liberatori. C’è, per quello che riguarda l’immagine del corpo e le sue
figure (o le sue “persone”, per dirla alla Camille Paglia)
il desiderio di conformarsi a degli stilemi e modelli che provengono
dal mondo dello spettacolo, e sempre i social network sono un esempio
straordinario di come i comportamenti sociali ambiscano sempre di più a
diventare uno “spettacolo” con un suo pubblico invisibile che
pubblicamente gradisce o no. Ci si mette sempre di più in scena, a
favore di camera. Fiction network. Immagini di visi, immagini di corpi,
immagini di comportamenti: immaginari.
Non sto dicendo che questo processo sia negativo o positivo: c’è una
trasformazione in atto che dimostra che sicuramente stiamo vivendo un
problema di identità. E in tutto questo l’immagine del corpo e
dell’automa sono protagonisti. Vogliamo essere visti, in alcuni casi
guardati. E vogliamo guardare, ovviamente.
Io difendo la mutazione. Forse sono ancora figlio dell’estetica
cyberpunk ma credo che la combinazione, e non l’adeguamento, possa
essere una possibilità (alchemicamente) creativa. Se esistono macchine
del desiderio, e se esiste ancora il desiderio, perché no? Come al
solito, Duchamp aveva la vista lunga”.
Amaducci: poesia e cibernetica, qualche nesso?
Alessandro Amaducci… “Direi: artificialità e poiesi. L’automazione, se non è coazione a ripetere, può generare linguaggi, possibilità estetiche, che devono essere utilizzate poieticamente. Il digitale costruisce, sta a noi il creare”.
Amaducci: la tua identità…digitale
Alessandro Amaducci… “Affetto
da sindrome di personalità multipla, posso solo dire della parte di me
che transita in questo mondo. Ex fumettista, ex performer, ex musicista,
ex artista visivo, ex fotografo, ex cinefilo. Mi sono laureato col
prof. Paolo Bertetto, che mi ha fatto scoprire il cinema d’avanguardia,
con una tesi sulla videoarte e su Zbigniew Rybczynski in particolare.
Ho imparato a usare il video insegnandolo, nel senso che per un po’ di
anni ho lavorato presso il Centro Arti Visive Archimede di Torino dove
ho fatto parte di un gruppo di animatori che usavano il video per i più
diversi scopi: corsi pratici veri e propri, corsi di appoggio alle
svariate attività della Circoscrizione. Ho fatto l’operatore e montatore
(elettronico) per l’Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza
di Torino.
Fondamentalmente sono un autodidatta. In questi luoghi che mi davano la
possibilità di usare le attrezzature anche per progetti personali ho
cominciato a fare i miei video di notte. Mi sono immediatamente
innamorato dell’immagine elettronica. Ho subìto il passaggio al digitale
soffrendo parecchio: ora non tornerei indietro. Il digitale ha rimesso
insieme le mie passioni: la grafica, la musica, il compositing…
Poi mi sono dotato di attrezzature personali e per un po’ ho lavorato
come free-lance per attività di carattere più commerciale: filmati
industriali e videoclip musicali. Siccome ho continuato ad insegnare in
varie situazioni, tra cui l’Istituto Europeo del Design di Milano, ho
cominciato a pubblicare testi sia pratici che teorici sulla videoarte ed
in generale sull’immagine elettronica e digitale.
Ho incontrato il teatro e la danza, per cui ho cominciato a lavorare col
video in quei settori, ho fatto il v.j. per vari locali torinesi, mi
piace l’uso del video dal vivo per varie situazioni. Non sono molto
bravo a fare videoinstallazioni: quello è un settore che un po’ mi
respinge.
Da un po’ di anni sono ricercatore presso il DAMS di Torino. Sto
riscoprendo l’immagine fissa, e la fotografia digitale. Ho fatto pace
con la computer grafica e la sto usando sempre di più. E ovviamente
continuo a fare i miei video”.
http://guide.supereva.it/controcultura/interventi/2011/01/arte-digitale-intervista-ad-alessandro-amaducci